Viviamo in un’epoca in cui ormai ogni ambiente esibisce segni più o meno evidenti della nostra presenza. Dal ritrovamento non solo di microplastiche, ma di veri e propri imballaggi rinvenuti fin nei nei punti più remoti degli abissi oceanici 1, alla trasformazione del paesaggio 2, allo spostamento degli equilibri che da migliaia di anni regolano lo stesso clima che ne permette la sopravvivenza 3, l’uomo ha lasciato la propria firma in una varietà di espressioni quanto più fantasiosa. Così, sempre più spesso sentiamo parlare di fenomeni di proporzioni mai incontrate a memoria d’uomo. Ma come è possibile affermarlo con sicurezza? Una fonte incontestabile è costituita dai dati. Solo a dimostrazione dell’aumento globale delle temperature esistono misurazioni che risalgono fino a metà Ottocento 4. Dove i dati non arrivano ci sono altri tipi di testimonianze: cronache scritte, annali ufficiali, giornali, documenti amministrativi e persino diari privati che, anche se redatti per altri scopi, permettono di ricavare informazioni altrettanto valide. In questo modo, il periodo della vendemmia nella regione francese della Borgogna registrato fin dal Trecento nei vari archivi cittadini 5, gli eventi estremi della Cina imperiale annotati per interesse dell’imperatore stesso come segnali celesti da interpretare 6, o i nomi attribuiti alle varie località britanniche dalle popolazioni locali che richiamano le caratteristiche osservate nel paesaggio al tempo 7 – solo per citarne alcuni – diventano dei veri e propri “proxy”, ovvero indicatori utili a ricostruire le condizioni ambientali del passato e trasmessi a noi da chi, quelle condizioni, le ha vissute.
Ma dove la memoria dell’uomo non arriva?
In questi casi il lavoro di ricerca prende le sembianze di una vera e propria investigazione, spaziando da pratiche suggestive come lo studio degli anelli di crescita degli alberi, a qualcosa di apparentemente molto più prosaico, ma non per questo meno ricco di sorprese: scavare. È infatti possibile che indizi vengano estratti da terreni accumulati nel corso di centinaia se non migliaia di anni, sotto forma di resti di piante, parti di animali, frammenti di carbone. Questi, rimasti per caso intrappolati in ambienti insospettabili come terreni paludosi, fondi di laghi o marini, o persino ghiacciai, con il tempo sono stati coperti da altri strati di materiali, che a loro volta hanno incorporato frammenti di ciò che li circondava, così fino a formare un vero e proprio archivio ordinato cronologicamente, una raccolta sotterranea di istantanee risalenti a diversi periodi storici. Tuttavia, attingere da questi archivi non è affatto facile. Come in tutte le istantanee che si rispettino può accadere che alcuni dettagli non siano stati inquadrati sul momento o che le immagini non diano una rappresentazione specchiata della realtà, tanto da ingannare facilmente un occhio inesperto e condurre ad una ricostruzione imprecisa, in grado di sviare le indagini. È qui che la scienza che si occupa di questo – la paleoecologia – mostra i muscoli. La sua peculiarità risiede infatti in qualcosa di esemplare: l’interdisciplinarità. I ricercatori non possono fare a meno di collaborare incrociando conoscenze provenienti da biologia, ecologia, chimica, fisica, matematica, archeologia, scienze sociali, o anche conoscenza indigena, in un connubio che dovrebbe essere di ispirazione per la comunità scientifica intera. Allora cilindri di terra – le cosiddette carote di sedimenti – vengono estratti e analizzati alla ricerca di fossili, che saranno poi identificati e ricondotti alle varie famiglie, generi o specie in base ad una o più delle loro caratteristiche, come l’aspetto molto specifico dei granuli di polline per le piante. Conoscere la biologia e l’ecologia di questi o dei loro parenti più prossimi permetterà poi di dedurre le condizioni ambientali del luogo da cui la carota è stata estratta, per le diverse epoche. Ad esempio, volendo rimanere nel reame vegetale, resti di piante che preferiscono condizioni umide saranno indice di una certa disponibilità di acqua nell’ambiente in quel momento, un picco di fossili di erbe infestanti suggerirà una ri-colonizzazione da parte della vegetazione dopo un disturbo (come un incendio, un’eruzione vulcanica, o attività più prettamente umane), mentre specie agricole saranno certamente “proxy” di presenza antropica. Allo stesso modo, la conoscenza di specie odierne fornisce un termine di paragone utile a conoscere se e come diverse strutture possano fossilizzarsi nei vari ambienti, quali piante producano meno polline, o abbiano una capacità di dispersione minore, aiutando a spiegare l’assenza di quei famosi dettagli dall’istantanea e riducendo il rischio di ricostruzioni ingannevoli.
I paleoecologi ingaggiano quindi viaggi improbabili nel cuore della foresta, scivolano con una nave tra gli iceberg dei mari antartici, improvvisano zattere per raggiungere il centro dei laghi da perforare e si scervellano sui modi più efficaci per portare a termine il lavoro senza letteralmente impantanarsi, per poter tirare su quelle carote, il cui studio ha tante ripercussioni quante si possano immaginare. Da un lato permettono di capire il sistema ‘Terra’ e la sua evoluzione e come le diverse specie siano emerse, si siano spostate e poi scomparse nel tempo grazie al confronto di record fossili di più località, permettendo di comprendere le origini della diversità biologica che osserviamo oggi nei diversi ambienti. Un contributo enorme, già da solo valido a giustificare il lavoro. Ma l’importanza di conoscere il passato è utile anche per dare una prospettiva: possono permettere di ricostruire le condizioni climatiche a cui un ambiente è stato sottoposto su scale temporali molto ampie, conferendo solidità a questioni critiche come i cambiamenti climatici, con cui questo articolo si è aperto, consentono di capire il modo in cui uomini ed ambiente siano co-evoluti, persino cercare se siano esistite civiltà più resilienti di altre, e a cosa fosse dovuto il loro successo (o insuccesso) alla luce del loro rapporto con l’ambiente circostante. Un esempio viene proprio da uno studio fatto in Amazzonia, dove è stato osservato che società che hanno sfruttato il territorio in maniera intensiva siano state più vulnerabili nel lungo periodo a cambiamenti climatici improvvisi rispetto a quelle basate su sistemi meno estrattivi 8. Come se non bastasse, la conoscenza della storia di un territorio può supportare le decisioni nell’ambito della conservazione, fornendo informazioni sulla storia di specie, comunità o paesaggi considerati oggi da proteggere, verificando se questi siano effettivamente in declino in una determinata zona, o se esistano obiettivi a cui dare maggiore priorità 9. Un esempio di ciò si è visto nel Parco Nazionale Exmoor in Inghilterra sud-occidentale, dove uno studio ha messo in luce come l’allora programma di ripristino del paesaggio dominato da erica selvatica fosse basato su presupposti errati, che non tenevano conto del range storico di variabilità di quel particolare luogo. All’epoca si pensava infatti che l’erica fosse in declino a causa della presenza dell’uomo, sostituita dalla specie Molinia caerulea, quando in realtà è stato provato come le due si fossero alternate naturalmente nel corso dell’ultimo millennio 10. Studi del genere aiuterebbero ad indirizzare sforzi e risorse economiche.
In ogni caso, la conoscenza è ricchezza. Un esempio brillante di questo è noto per la regione Peruviana Chachapoya, dove la cognizione di come il paesaggio sia cambiato nel corso del tempo è considerata valida per allargare il repertorio delle guide turistiche del posto 11. Il fatto che le comunità locali possano avere un maggiore potere e allo stesso tempo generare un ritorno economico grazie alla sola presa di coscienza della propria eredità bioculturale, ha un potenziale immenso.
La frase che si sente affermare più spesso in paleoecologia è che il passato sia chiave per il futuro. Da chi con il passato ci lavora possiamo certamente imparare il valore della collaborazione, in controtendenza rispetto ad un sistema che confinerebbe ognuno nella propria “camera d’eco”, ed al contrario sommare le peculiarità di ognuno in un tutto che è davvero maggiore della somma delle parti. Ma al di là dei mezzi, forse la migliore sintesi del valore del passato in quanto chiave – di lettura dell’attuale e di volta per il futuro – ci viene regalata da Robin Wall Kimmerer, nativa americana e scienziata impegnata in altre discipline, le cui parole risuonano tuttavia familiari quando scrive che «nel pensiero popolare, la storia si dipana in una linea temporale, come se il tempo marciasse a passo deciso in una sola direzione. Alcune persone dicono che il tempo sia un fiume in cui ci si bagni una volta sola, che fluisca in un percorso dritto fino al mare. Ma il popolo Nanabozho sa che il tempo è un cerchio. Il tempo non è un fiume che corre inesorabilmente verso il mare, ma il mare stesso – la marea che appare e scompare, la nebbia che si alza per diventare pioggia in un fiume differente. Tutto ciò che era, tornerà di nuovo». 12
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Copertina: Valle glaciale Lapponia Svedese (Pietro Montemurro)