Immaginiamo per un momento di essere in grado di sopportare quattrocento volte la pressione a cui siamo abituati; non solo, possiamo resistere a temperature medie di quattro gradi e vedere nel buio più profondo: sono questi i superpoteri che ci serviranno per esplorare gli abissi degli oceani. Che aspettative abbiamo? Senz’altro un buio deserto e nulla più, nuotare in quella che sembra essere un’oscurità senza fine. Ma all’improvviso vediamo una luce, anzi non una: due, tre, quattro, sono migliaia! Si muovono a intermittenza e sono ovunque intorno a noi: andiamo a conoscere gli animali bioluminescenti delle profondità marine.
La bioluminescenza
La luce del sole giunge solo a 200-400 metri di profondità e la profondità media dei mari è quasi 4mila metri, per questo gli animali degli abissi si sono dovuti adattare creando la propria luce. Questa luce può provenire da tre fonti: secrezioni luminose che emettono gli organismi; la presenza di particolari organi, detti fotofori, dove, grazie alla reazione della luciferina con l’enzima luciferasi, avviene l’emissione della luce; simbiosi con dei batteri in grado di emettere luce. Circa due terzi delle specie abissali possiedono organi luminosi e i segnali che emettono sono spesso brevi flash che vengono usati per comunicare. La maggior parte di quegli impulsi luminosi significa solamente: “Ei sono qui! Si apparteniamo alla stessa specie” oppure “Ciao, hai indovinato, sono un maschio della tua stessa specie, ti vorresti accoppiare con me?”. Molto spesso infatti gli impulsi luminosi emessi differiscono fra maschi e femmine di una stessa specie, sono cioè dotati di dimorfismo sessuale. Questo permette agli animali della stessa specie di riconoscersi, corteggiarsi e accoppiarsi. Possiamo immaginare gli abissi come un prato pieno di lucciole in una notte estiva: il meccanismo di bioluminescenza è lo stesso e anche loro si illuminano per accoppiarsi. In altri casi ancora l’emissione di liquidi bioluminescenti può essere un meccanismo di difesa contro eventuali predatori e può permettere la fuga prima di essere catturati.
Ora sappiamo che gli oceani sono pieni di vita anche nelle loro profondità, e non è una cosa di poco conto. Fino agli inizi del 900 infatti si credeva ancora che la “teoria azoica” fosse vera. Questa teoria fu formulata da Edward Forbes dopo il primo dragaggio dei fondali marini che è avvenuto nella spedizione Challenger, la prima campagna oceanografica della storia risalente al 1872. Secondo questa teoria gli ambienti marini al di sotto dei seicento metri di profondità non consentirebbero la vita a causa delle loro “condizioni estreme”. Ma noi sappiamo che gli organismi sono in grado di adattarsi quasi a qualsiasi condizione e che la vita conquista pressoché ogni spazio del pianeta; inoltre per un pesce abituato a vivere a pressioni di 400 atmosfere sarebbe piuttosto “estremo” vivere a un’atmosfera di pressione come viviamo noi. La scienza moderna non ha più dubbi: non solo gli abissi non sono dei deserti ma al contrario possiedono un’alta biodiversità, contando un numero elevatissimo di specie. Purtroppo, gli studi relativi a questi ambienti profondi sono molto pochi per le difficoltà oggettive dell’esplorazione e per i loro costi. Basti pensare che oltre l’80% delle specie di invertebrati che vengono di volta in volta campionate nelle profondità abissali è nuovo alla scienza, e che, se si contassero le specie ancora da scoprire nei mari, sarebbero di più le specie sotto l’acqua che quelle sulla superficie. Come si mantengono tutti questi organismi in assenza di luce e quindi di fitoplancton, la base di tutte le catene alimentari marine? Con la cosiddetta “neve marina”, ossia una pioggia pressoché costante di sostanza organica prodotta nelle zone oceaniche superficiali e che, morendo, decanta lentamente verso i fondali. Un’altra fonte di sostentamento importante sono le carcasse di grandi animali, come le balene, che formano dei veri e propri ecosistemi: vi si possono stabilire intere comunità di animali e batteri che si susseguono negli anni.
Proseguendo la nostra esplorazione dei fondali possiamo notare che non sono composti da sole piatte pianure abissali, ma che ritroviamo strutture geologiche simili a quelle in superficie: montagne imponenti, canyon vertiginosi e fosse profondissime.
Montagne e coralli di profondità
Le montagne sottomarine, dette seamount, sono stimate essere più di 60mila, considerando solo quelle che superano i mille metri di altezza. I seamount sono strutture isolate, a forma di cono e generalmente di origine vulcanica; quando sono alte abbastanza da superare la superficie oceanica le chiamiamo isole: le Hawaii, le Azzorre e le Bermuda ne sono un esempio. Il loro substrato roccioso permette la crescita di organismi che mai penseremmo di trovare nelle oscurità abissali: le barriere coralline. Questi delicatissimi intrecci di calcare bianco ospitano tantissima biodiversità e molte sono le specie che scelgono la complessità di rifugi che questi reef offrono per la riproduzione. Il colore dei coralli è dato dall’associazione con un particolare tipo di alga, associazione che non è possibile dove non c’è luce. Proprio per l’assenza di questa simbiosi, i coralli profondi sono bianchi e sono ecosistemi ancora più delicati di quelli in superficie: hanno un tasso di crescita di circa 15 mm all’anno, dieci volte inferiore a quello dei coralli tropicali. Sono gravemente minacciati dalla pesca a strascico, che con le sue grandi reti distrugge indiscriminatamente qualsiasi tipo di fondale. Sono necessari secoli per ricostituire questi fragilissimi ecosistemi.
I canyon sottomarini e le fosse
I canyon sono profonde incisioni nelle scarpate e nei margini continentali detti anche “corridoi veloci” perché trasportano materiale organico dall’ambiente terrestre (pensiamo ai fiumi) direttamente nelle profondità oceaniche. Qui si stabiliscono soprattutto organismi filtratori, grazie alla ricchezza del particolato che arriva dalla superficie, e tutti gli organismi a loro associati. Le fosse invece da sempre esercitano un fascino particolare in noi, chi non conosce la fossa delle Marianne, che con i suoi 10mila metri di profondità è fra le più impressionanti formazioni geologiche sottomarine. Le fosse sono dei veri e propri sprofondamenti del fondale, al momento se ne contano circa 37 e ospitano moltissime specie, grazie anche alle condizioni fisiche relativamente stabili che le caratterizzano.
Nonostante sappiamo pochissimo della vita nelle profondità oceaniche sono moltissimi i danni che stiamo causando a questi ecosistemi, perdendo biodiversità prima ancora di conoscerla. Mi piace pensare che un giorno le profondità marine possano essere quel luogo privilegiato di cui ci racconta Jules Vernes in Ventimila leghe sotto il mare: “Il mare non è dei despoti. Alla superficie essi possono abusare ancora di diritti iniqui, combattersi, sbranarsi, portarvi gli orrori terrestri. Ma a pochi metri sott’acqua il loro potere cessa, la loro influenza non conta più, la loro forza s’annulla.”
Bibliografia:
- Danovaro, Roberto. Biologia marina: Biodiversità e funzionamento degli ecosistemi marini. Seconda edizione. UTET università, 2019.
- Verne, Jules. Ventimila leghe sotto i mari. Fanucci Editore, 2018.
immagine di copertina: specie non identificata di Copepode dell’ordine Calanoida
Copepodkils.jpg (2000×1500) (wikimedia.org) autore: Uwe Kils