Le distese della savana africana. Una foresta nel sud-est asiatico. L’Amazzonia. Spesso sono queste le immagini che vengono in mente quando si pensa a un luogo naturale incontaminato.
Eppure, anche se incredibile, questi stessi ambienti – così come la maggior parte di ciò che è naturale o selvaggio nell’immaginario comune – sono spesso proprio frutto di una lenta e graduale azione degli esseri umani, che nell’arco di millenni hanno influenzato dinamiche evolutive, ecosistemi e paesaggi di oggi.
Fin dalla loro comparsa, le comunità umane si sono inevitabilmente trovate ad interagire con ciò che le circondava, con mezzi ed intensità proporzionali all’evoluzione del proprio ingegno. La natura è un sistema altamente interconnesso per cui, come in un gioco di biglie, ogni elemento che cambia si ripercuote sulla rete di relazioni che esso stabilisce nel corso della sua esistenza in un effetto a catena la cui dinamica ci ha descritto così bene Sara Verni nel suo articolo. Una azione continua ma sempre nuova come quella esercitata attraverso caccia, domesticazioni, l’uso del fuoco, la costruzione di strutture sempre più imponenti e tecnologie di volta in volta più complesse ha portato a ripercussioni tali da eguagliare dinamiche che hanno governato la vita sul pianeta fino a quel momento. Guardando solo al mondo delle piante, uno studio uscito di recente su Science1 ha dimostrato come la velocità con cui le comunità vegetali sono cambiate nel corso degli ultimi quattromila anni sia aumentata tanto da essere comparabile, se non superare i cambiamenti avvenuti durante l’ultima deglaciazione*. Considerando che la temperatura media globale durante quest’ultima è aumentata molto di più rispetto al periodo preso in considerazione dallo studio (circa 6°C durante la deglaciazione rispetto al circa 1°C tra Medio e Tardo Olocene** 2), significherebbe che le sole azioni degli esseri umani sarebbero state in grado di eguagliare fenomeni così imponenti e dalle conseguenze così profonde come le ere glaciali.
Questa firma sul pianeta non è nemmeno tanto recente. Un altro studio3 ha mostrato come già più di diecimila anni fa solo circa un quarto della terra fosse effettivamente privo di segni di presenza umana, e che quindi le aree non toccate dall’uomo fossero tanto rare allora quanto lo sono oggi. Come viene riportato dagli autori stessi: “territori ora caratterizzati come “naturali”, “intatti” e “selvaggi” hanno generalmente lunghe storie di uso umano”. Allo stesso tempo però, lo studio mostra come in molti casi aree globalmente caratterizzate da una forte ricchezza di specie si sovrappongano a zone abitate dall’uomo per millenni.
È facile sentirsi disorientati a questo punto. Queste evidenze sono infatti in netto contrasto con una visione che ha dominato il pensiero occidentale da centinaia di anni: quella degli esseri umani come entità fondamentalmente separate dal mondo naturale, il mondo naturale stesso come rifugio dove gli uomini fossero relegati a visitatori, le azioni umane come qualcosa di intrinsecamente e prepotentemente dannoso. Gli stessi studiosi o policy makers non sono stati esenti in passato dal ricadere in questo paradigma che vedesse gli ecosistemi terrestri come entità a parte, ignorandone le possibili storie di utilizzo, specialmente da parte di comunità indigene. A corollario, le trasformazioni di matrice umana sono viste come recenti e intrinsecamente distruttive. Tutt’ora il focus è spesso sugli effetti negativi di queste interazioni, tra estinzioni di specie, degradazione degli ambienti naturali e effetti a cascata dannosi sugli ecosistemi.
È innegabile che alcune società abbiano contribuito a questi fenomeni in passato. La storia però non è solo bianca o nera, e questo studio ci forza ad affrontare una realtà molto più complessa. Una prospettiva nuova viene dal considerare che, sempre citando gli autori: “ci sono evidenze sempre maggiori di come le pratiche umane abbiano anche prodotto benefici per gli ecosistemi espandendo alcuni habitat4,5, rafforzando la diversità vegetale5,6,7,8,9, provvedendo a funzioni ecologiche importanti come la dispersione dei semi9, e aumentando la disponibilità di nutrienti nel suolo11,12.”
Vivere e fare uso della natura non sembra essere stato di per sé causa primaria della attuale crisi ambientale. Gli autori dello studio non lasciano scampo: “con rare eccezioni, la causa primaria del declino della biodiversità, almeno in tempi recenti, è l’appropriazione, colonizzazione e uso intensivo di terre già abitate, utilizzate e modellate da società precedenti”.
In più, il relegare l’uso umano della natura allo stato di disturbo di una dimensione naturale altrimenti libera ha profonde implicazioni non solo per chi quei sistemi li studia, ma anche per chi li amministra. Queste ricadono sulle politiche di gestione della fauna selvatica, del restauro ambientale, della gestione di fenomeni come gli incendi. Proprio quest’ultimo, il cosiddetto “fire management”, è solo una delle pratiche messe in atto da popolazioni locali, eredi di una conoscenza tradizionale accumulata e trasmessa da molto più tempo di un possibile tecnico che si sia successivamente “paracadutato” in un determinato luogo. Nonostante ciò, per molto tempo c’è stata una politica di esclusione delle comunità indigene dai luoghi considerati importanti perché da preservare (con conseguenze a volte catastrofiche13).
Quello che emerge è essenziale: per capire e sostenere la natura è necessario riconoscere questa importante connessione culturale che abbiamo con essa. Una conservazione efficace, sostenibile ed equa della biodiversità, ma anche dei benefici che gli esseri umani ne traggono, dovrebbe abbracciare questa eredità profonda, riconoscere e restaurare le connessioni tra società e territori, garantendo diritti e responsabilità.
“Questo sembra essere un buon consiglio pratico sia emotivo per far quadrare un passato complicato e confrontare un futuro del pianeta incerto. Non possiamo far tornare indietro le lancette dell’orologio e vivere come gli esseri umani di migliaia di anni fa (…). Ma forse possiamo ancora trovare una via per andare avanti, riappropriarci del nostro ruolo come specie che ha cambiato il pianeta e prenderci cura della natura che persiste nel mondo. Questo è ciò che noi esseri umani – al nostro meglio – abbiamo fatto per molto tempo”14
*Periodo che va dai 20 mila ai 10 mila anni fa circa, con differenze regionali nella durata del periodo di maggiore aumento delle temperature (graduale in alcune, da decennale a centennale in altre 15)
** Periodo che va dai 6 mila anni fa ad oggi
Bibliografia
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- Rosen J. (2021). Why there’s no such thing as pristine nature. Knowable Magazine, ultima visualizzazione il 7 Febbraio 2022
- Fordham D. A. et al.(2020). Using paleo-archives to safeguard biodiversity under climate change. Science 369, 6507
Foto in copertina e nel testo: ‘Chapada diamantina’ Cecilia De Sanctis