Difficile non essere affascinati dalle vite dei naturalisti. Non è improbabile affermare che ogni appassionato si sia ritrovato almeno una volta a fantasticare di salire su grandi navi, solcare oceani, essere tra i primi ad attraversare luoghi estranei ed esotici con il solo scopo di comprenderli, osservare e raccogliere campioni di organismi mai visti prima, dargli nomi e da lì provare a interpretare il mondo.
Si pensi ai viaggi di Alexander von Humboldt, considerato padre delle scienze naturali moderne, Charles Darwin a bordo della HMS Beagle alla volta del Sud America, Sir Joseph Banks sull’Endevour, René Malaise e Gustav Eisen, conosciuti per l’immenso sforzo di raccolta di campioni ed artefatti umani, Sir Roderick Murchinson e i suoi rilevamenti geologici attorno al mondo, a Sir Hans Sloane, amato nelle isole britanniche per avere introdotto la cioccolata da bere – e come biasimarli – e le cui collezioni hanno contribuito alla fondazione del Natural History Museum di Londra, tempio occidentale delle scienze della natura. Ciò che ci spinge nel cercare di capire la natura, dagli abissi marini alle creature boschive più curiose, è anche ciò che ha dato il via a queste e molte altre spedizioni grandiose, arrivando a dar vita a istituzioni dedicate, divenute poi centrali nello sviluppo della scienza della natura come la conosciamo oggi e attorno a cui molte ricerche si concentrano tuttora.
Tuttavia, spesso si tralascia come gli scienziati, esploratori, curiosi impegnati in queste ricerche raramente fossero geni solitari, isolati dalla politica ed economia del loro tempo. I viaggi di Darwin e Banks poggiavano sull’imperialismo britannico1,2, Sloane si servì ampiamente della tratta degli schiavi per collezionare i propri campioni2,3, le operazioni di mappatura di Murchinson erano legate a operazioni di intelligence per raccogliere informazioni su minerali e politiche locali2, mentre intere discipline accademiche come la botanica erano sostenute economicamente dagli interessi nella ricerca di piante utili come medicinali o per il loro valore commerciale; così come il network globale degli orti botanici è emerso non solo per creare piacevoli spazi verdi, ma anche per avere dei laboratori sperimentali dedicati alla di ricerca di prodotti utili3. Piante come l’albero della gomma, da cui questo materiale viene estratto, o la Cinchona, usata per combattere la malaria, sono stati di fatto al centro di operazioni determinanti per la fortuna di imperi3,4.
Le stesse operazioni di raccolta di campioni animali, vegetali ed artefatti umani nei vari angoli del mondo si possono dire mosse dalle stesse dinamiche. Ciò che veniva scoperto nei territori colonizzati veniva preso, spedito alle rispettive madri patrie, e poi ospitato in centri che a loro volta si ingrandivano proprio per accomodare il crescente flusso di materiali. Tuttora molti campioni raccolti, come quelli di Malaise ed Eisen “sono ancora nelle casse di qualche magazzino, troppi per essere catalogati da chi li ha raccolti, abbastanza per dare lavoro a gruppi interi di volenterosi naturalisti”5, producendo nuova conoscenza ad appannaggio delle istituzioni che li ospitano.
Questa dimensione innegabilmente coloniale delle scienze che studiano la natura – dalle scienze della vita a quelle geologiche – è rimasta inesplorata, nonostante alcuni la intravedessero già, tanto che nel 1899 Sir Ronald Ross, dottore impegnato nella lotta alla malaria nelle colonie in Sierra leone si espresse pubblicamente affermando che “il successo dell’imperialismo nel prossimo secolo dipenderà largamente dal successo con il microscopio”1.
Molto è stato scritto su come “le scienze moderne siano state costruite su un sistema che abbia sfruttato milioni di persone, allo stesso tempo giustificandolo e sostenendolo in una misura che ha enormemente influenzato il modo in cui gli occidentali vedono altre etnie e paesi”1.
Allo stesso tempo, ci viene fatto osservare che: “non bisogna cadere nell’errore prospettico di chiedere a uomini dell’Ottocento di ragionare con categorie post coloniali sviluppate nel secondo dopoguerra”5. Mentre chi lavora o è interessato a questi campi oggi può facilmente sentirsi lontano da questa eredità, a causa del tempo trascorso da quell’epoca o a causa della natura “desk-based” della propria ricerca. Perché ragionarci allora? Non era questa una rubrica dedicata semplicemente alla natura?
Eppure, sistemi legati al trauma coloniale continuano a dare forma all’esperienza di molti ecologi, naturalisti, biologi, persino antropologi, ancora oggi. Allo stesso tempo, molte narrative sono tuttora influenzate dalla visione del mondo in cui gli avanzamenti nell’ambito naturalistico o biologico sono portatori di salute, civiltà o cultura in popolazioni intrinsecamente inferiori. E le conseguenze di questi processi sono tangibili. Uno studio su Nature6 parla innanzitutto di colonialismo nella mente, riferendosi al modo in cui uno studioso occidentale si rapporta spesso alla conoscenza. Dal semplice uso del linguaggio, come quando si parla della regione Neotropicale (nuova per chi?) o il sovrascrivere nomi latini – derivati a volte dai nomi dei loro scopritori Europei – ad i nomi tradizionali con cui alcune specie vengono riconosciute, spesso più informativi sui comportamenti o sulle caratteristiche di quella specie. Si passa poi per lo svalutare le conoscenze locali, le tradizioni orali, gli artefatti che hanno permesso di navigare l’ambiente in maniera sorprendentemente (per noi) dettagliata, relegandoli a folklore o aneddotica, arrivando in casi estremi a proclamare scoperte scientifiche, per esempio di proprietà curative di piante, conosciute e condivise dai residenti locali da tempo. L’idea che viene così suggerita, come sottolineato anche da Marco Boscolo nel suo articolo per il Tascabile, è che “un principio attivo, una sostanza o un animale vengono davvero scoperti solo quando entrano nella letteratura scientifica occidentale; anche quando questo avviene a partire dalle conoscenze non sistematiche e orali che una popolazione ha da secoli”5.
Tuttavia, oltre alla dimensione mentale, queste disparità si manifestano anche a un livello fortemente pratico: la subordinazione scientifica dei paesi ex colonie da parte dei ricercatori del cosiddetto primo mondo. Spesso infatti il ruolo degli scienziati locali si riduce a quello di meri manovali impiegati nelle analisi e nella raccolta dei dati per gli scienziati occidentali, a cui si aggiungono i problemi di accesso a quella stessa conoscenza prodotta nel “Nord Globale”, che sia per la collezione di dati ecologici accumulati in musei o server lontani dai luoghi in cui vengono raccolti, per l’assenza di internet ad alta velocità, per la mancanza dei giusti network, per gli alti costi per pubblicare o anche solo accedere agli articoli scientifici.
Questo tipo di pratica ha un nome: scienza paracadute6. Altri modi in cui avviene sono attraverso l’attingere ai saperi tradizionali di questi paesi, nei casi in cui questi non vengono sminuiti, ma vengono comunque catalogati e pubblicati senza mai menzionare il contributo dei curatori e degli esperti locali.
Un altro approccio distruttivo è quello di voler mitigare il cambiamento climatico tramite operazioni,come quelle di “rewilding”, che abbiano costi locali su benefici sperimentati a livello globale, nei casi in cui impongono una visione del mondo esterna ai valori ed ai bisogni locali. Sempre lo stesso articolo riporta come esempio il caso dell’imposizione di una area che vietasse ogni tipo di pesca nella Polinesia Francese e come questa, non incontrando i bisogni dei pescatori locali, non fosse stata semplicemente rispettata, risultando in un nulla di fatto per le popolazioni ittiche da proteggere. È evidente come una gestione dall’alto di questo tipo si riveli erosiva per l’autodeterminazione delle persone, con la possibilità di minare l’obiettivo stesso dei progetti.
Decolonizzare le scienze naturali non è cosa da poco. Non significa certo buttare via tutto ciò che si è appreso finora e ricominciare da capo, facendo esclusivamente uso di antichi artefatti e dei racconti dei nostri nonni. Per molti, si tratta di riflettere criticamente sulla propria professione, al contesto politico che ha permesso lo sviluppo del proprio lavoro, alle strutture di potere a cui la scienza ha in diversi momenti storici contribuito, togliendo dignità ad alcuni corpi più che ad altri. Alcuni suggeriscono che un passo importante sia “prendere posizione e riconoscersi come parte del sistema che si vuole descrivere, più che come attori neutrali, prendendo coscienza di come i propri background e formazione influenzino i quesiti che vengono posti, cercando di capire come i dati vengono interpretati e come il proprio lavoro si intersechi con il potere di imprese o interessi estrattivi su un luogo”7.
La decolonizzazione non passa solo dal prendere atto, ma anche dal fare in modo che i modi e le implicazioni della propria ricerca non siano in contrasto con i valori e la gestione locali. Certamente questo restringe l’accesso o la capacità di azione di un ricercatore, ma allo stesso tempo costituisce un atto di rivendicazione importante, per tutti coloro che hanno dovuto ripetutamente rinunciare a i propri territori o stili di vita.
Molte di queste difficoltà nell’ambito specifico della gestione dei territori e della conservazione della natura derivano proprio dal rapporto con le popolazioni locali: spesso questo rapporto viene romanticizzato, ricadendo sempre nella semplificazione occidentale del mito del buon selvaggio, e assumendo che queste abbiano la volontà di fare ciò che gli viene chiesto da noi. Sarebbe importante riconoscere piuttosto che, come ogni comunità umana, anche le realtà locali che incontriamo nel nostro lavoro di scienziati hanno aspirazioni politiche, culturali ed economiche legittime che possono differire dalle nostre aspettative e, soprattutto, considerare quali sono le implicazioni di farsi carico delle sfide della conservazione globale senza fornire adeguate risorse e supporti.
Queste riflessioni iniziano già a portare frutti. Alcuni utilizzano linguaggi locali di fianco al sistema tassonomico tradizionale che vuole i nomi in latino, o riassegnano nomi a uccelli i cui epiteti derivino da persone legate alla tratta degli schiavi, lavorano per rendere i propri materiali disponibili in altre lingue oltre all’inglese8, condividono le collezioni dei musei con i paesi dai quali sono stati prelevati senza consenso, o rendono pubbliche attraverso progetti dedicati le storie di colonialismo che vi si celano dietro3. Sono storie interessanti, come quelle dell’Amazon Conservation Team, che lavora con le comunità indigene in diversi paesi nel Sud America, collaborando a progetti che promuovono la conservazione della biodiversità e allo stesso tempo che puntano al proprio auto-governo, oppure come le storie di inclusione di rappresentanti delle popolazioni indigene nei piani strategici globali per la biodiversità7,9
Questi discorsi sembrano marginali per una persona che si addentra nello studio della natura, ma aiutano a scoprire la complessità della vita, e di come piante, animali, ambienti e persone si siano intersecati ed influenzati in più di un modo e direzione. Tra tutte, è proprio l’ecologia a studiare le relazioni dei viventi, tra loro e con l’ambiente in cui vivono. Il riconoscere la loro diversità, non solo in termini biologici, ma anche di sistemi di conoscenza, soluzioni e storie delle persone che la compongono – includendo il loro genere, etnia, nazionalità – è certamente un modo per allargare la propria lente di lettura sul mondo10.
Bibliografia
1. Deb Roy, R (2018). Decolonise science – time to end another imperial era. The Conversation, visto il 17 Marzo 2022, https://theconversation.com/decolonise-science-time-to-end-another-imperial-era-89189
2. Raja, N.B., Dunne, E.M., Matiwane, A. et al. (2022). Colonial history and global economics distort our understanding of deep-time biodiversity. Nat Ecol Evol 6, 145–154, https://doi.org/10.1038/s41559-021-01608-8
3. Chatterjee, S. (2021). The Long Shadow Of Colonial Science. Noema Magazine, visto il 17 Marzo 2022, https://www.noemamag.com/the-long-shadow-of-colonial-science/
4. Wong, J. (Host), (2021, Mar 10). Dirt on our hands: Overcoming botany’s hidden legacy of inequality (No. 7) [Audio podcast episode]. In Unearthed – Mysteries from an Unseen World. Royal Botanic Garden Kew. https://omny.fm/shows/unearthed-mysteries-from-an-unseen-world/dirt-on-our-hands-overcoming-botany-s-hidden-legac
5. Boscolo, M. (2018). Decolonizzare la scienza. Il Tascabile, visto il 14 Marzo 2022, https://www.iltascabile.com/scienze/scienza-colonialismo/
6. Asase, A., Mzumara-Gawa, T., Owino, J., Peterson, A., Saupe, E. (2021). Replacing “parachute science” with “global science” in ecology and conservation biology. Conservation Science and Practice, e517. https://doi.org/10.1111/csp2.517
7. Trisos, C.H., Auerbach, J. & Katti, M. (2021). Decoloniality and anti-oppressive practices for a more ethical ecology. Nat Ecol Evol 5, 1205–1212. https://doi.org/10.1038/s41559-021-01460-w
8. Ponce De La Vega, L. (2020). Towards Online Decoloniality: Globality and Locality in and Through the BHL. Biodiversity Heritage Library Blog, visto il 7 Aprile 2022, https://blog.biodiversitylibrary.org/2020/09/towards-online-decoloniality.html
9. IUCN (2021). Indigenous Peoples launch self-determined agenda at IUCN World Conservation Congress. Visto il 9 Aprile 2022, https://www.iucn.org/news/governance-and-rights/202109/indigenous-peoples-launch-self-determined-agenda-iucn-world-conservation-congress-4
10. Shaw, A.K. (2022).Diverse perspectives from diverse scholars are vital for theoretical biology. Theor Ecol. https://doi.org/10.1007/s12080-022-00533-1
Foto in copertina e nel testo: Cecilia de Sanctis