“Un giardino contenente collezioni catalogate, ordinate e scientificamente mantenute di piante, aperto al pubblico per scopi educativi, ricreativi e di ricerca” (1)
Questa è la definizione ufficiale di orto botanico. Ma una definizione, per quanto accuratamente formalizzata, riesce appena a catturare la meraviglia di queste strutture. Crocevia tra ricerca scientifica e insegnamento, gli orti botanici sono luoghi attraversati da migliaia di persone ogni giorno, in ogni parte del globo. Reduci di un passato non proprio positivo, hanno la possibilità di emanciparsi dalle proprie radici coloniali guardando invece a quell’istinto dalle potenzialità ancora più radicali: la comprensione di qualcosa così diverso da noi per fini non necessariamente utilitaristici. Qualcosa che allo stesso tempo è centrale per la nostra stessa esistenza: le piante. Una tensione tutta umana questa, del “fatti non foste per viver come bruti”. Allo stesso tempo centri di ricerca scientifica e sviluppo, gli orti botanici hanno anime molteplici, tante quante quelle di coloro che li attraversano. Per catturare anche solo una frazione di questa moltitudine, abbiamo intervistato cinque persone che lavorano al Trinity College Botanic Garden, orto botanico universitario a Dublino.
Il primo che vi presentiamo è il professor Stephen Waldren, curatore dell’Orto e responsabile della sua supervisione e mantenimento. Stephen parla in primis della sua politica curatoriale, incentrata attorno ai bisogni del College, quali fornire piante per l’insegnamento e materiale per la ricerca. Allo stesso tempo spende parole sulle potenzialità di queste strutture: «Questo luogo potrebbe essere una dimostrazione di come fare le cose in maniera sostenibile: potremmo usare l’energia geotermica per riscaldare il posto o utilizzare l’energia solare e generare elettricità! Rendere le strutture carbon neutral. […] Potremmo avere uno spazio dove le persone possano camminare attraverso diverse zone bioclimatiche nelle serre. Ed allo stesso tempo non trascurare la ricerca».
Ci parla poi della banca del germoplasma presente nell’Orto, nata con l’obiettivo di raccogliere e conservare materiale genetico sia di piante native che di antiche varietà di specie agricole irlandesi. Su queste ultime racconta del progetto per la loro rigenerazione «ovvero farle germogliare da seme, aumentarne il numero e poi mantenerle qui, in modo da avere delle varietà cresciute ed adattate a climi locali irlandesi, da Galway alle Isole Aran». E continua «una volta i contadini conservavano ogni anno le loro sementi, e così ogni seme sopravvissuto veniva naturalmente selezionato per l’anno successivo: una selezione basata su condizioni ambientali e metodi di coltivazione locali. L’agricoltura moderna non è così: c’è uniformità. Si può cambiare l’ambiente attraverso i fertilizzanti in modo che ogni cosa cresca uguale alle altre. Come risultato però si perde diversità genetica, e questo è un potenziale problema per il futuro. Vedi, quindi, c’è un collegamento anche con la sicurezza alimentare». Oggi fare scienza significa anche questo. Ma allo stesso tempo, Stephen ci tiene ad aggiungere una dimensione più “spirituale”, come dice lui stesso. «È da quando ero dottorando che mi interessano gli orti botanici. È difficile separare l’interesse personale nelle piante dal mio ruolo attuale di curatore, perché le ho sempre trovate affascinanti, da perdermici dentro. Una collezione di piante strane, inusuali, su cui si possano raccontare delle storie, piante che facciano cose differenti in momenti dell’anno differenti: quando fioriscono, quando perdono le foglie, i colori spettacolari che assumono, o i più piccoli dettagli delle foglie. Il semplice andare in giro e giocherellarci in contrasto con attività più mondane come stare seduti nelle riunioni a discutere le minuzie tecniche dei punti politici del College. E penso che con la vita di tutti i giorni che diventa sempre più frenetica possa essere sempre più importante poter semplicemente rallentare ed apprezzare le cose: i colori, i sensi, senza necessariamente essere un botanico o uno scienziato di nessun genere. Penso che gli orti botanici debbano essere dei posti che ispirino. E penso siano una grande opportunità per raggiungere le comunità locali». Naturalmente le sfide non mancano, tra infrastrutture e personale dedicato: «A volte siamo come dei pompieri. I costi sono una grossa barriera, ma lo sono sempre stati per istituzioni come questa. C’è sempre il rischio che il terreno sia visto come sfruttabile per altre cose, più profittevoli».
Altri punti di vista interessanti li scopriamo parlando con Eva Dreyer e Alicia Brothy, due studentesse tirocinanti all’interno dell’Orto. Per Eva si tratta di una grande risorsa per l’apprendimento. Ci racconta: «personalmente ho imparato molto di più avendo a che fare fisicamente con le piante, rispetto a quando mi trovavo in classe. Penso che le cose “facciano click” più facilmente, rispetto per esempio a quando si guardano immagini su uno schermo. Ed Alicia, più tardi, lo ribadirà: «Gli studenti di zoologia non hanno zoo universitari o cose simili, e penso sia bello avere un luogo dove tu possa uscire e lavorare, e apprendere tu stesso. Ovviamente, è anche ottimo per le esperienze pratiche. I primi anni [di università, ndr] abbiamo un percorso biomedico generale, ma stando qui non è più come leggere un libro, devi effettivamente mettere le mani nella terra per imparare su di essa. Vedere le cose dal vivo, dove crescono e come interagiscono con l’ambiente è un’esperienza del tutto differente. Mi viene in mente questo episodio in cui piantavamo delle piante della famiglia della menta, ed abbiamo osservato come tutti i membri avessero questi gambi rettangolari, che sono in realtà un tratto distintivo della famiglia, ed ora questa informazione è rimasta con me».
Il loro punto di vista di studente porta un’altra visione molto importante: la sfida di «trovare l’equilibrio tra orticultura e botanica». Eva ci dice: «Ovviamente nelle serre ci sono tutte queste piante esotiche e tropicali provenienti da luoghi pazzeschi, e lì puoi apprezzarle come campioni botanici, mentre nel giardino esterno c’è il bisogno di tracciare un confine: questo albero si trova qui perché ha una importanza botanica o conservazionistica o semplicemente perché è bello?. Oppure un’altra sfida che mi viene in mente, è il diserbo attorno agli alberi per renderli più piacevoli alla vista, e mantenere il posto “pulito”. Ma da un punto di vista scientifico, ricordando le nostre lezioni di ecologia, penso ai benefici nell’avere queste comunità vegetali così diverse sotto gli alberi. Ora come ora nel nostro Orto c’è questo compromesso in cui ci sono dei cerchi più ordinati attorno agli alberi, mentre tutto il resto è un po’ più selvaggio, il che offre un bel contrasto, ma in generale penso ci sia una contrapposizione tra l’intervento estetico, e l’esaltazione dell’ecosistema per il suo valore intrinseco». Tutto questo senza dimenticare «quanto un posto come questo sia importante anche per le persone che non hanno un background scientifico, semplicemente come un bel luogo dove passeggiare, guardarsi intorno e osservare una diversità di piante a cui normalmente non riuscirebbero ad accedere, tutte concentrate in un singolo luogo. Proprio ieri una signora camminava nell’Arboreto e ci ha detto di vivere in un quartiere vicino, in un appartamento senza giardino, e solo il fatto di poter passeggiare lì fosse per lei bellissimo, che trovasse l’arboreto un posto assolutamente spirituale, che le ricordasse i giardini delle fate delle storie locali. Poter fare un passo a lato e vedere l’Orto dalla prospettiva di qualcuno di esterno è stato bellissimo. Penso che il modo in cui apprezzi un luogo come questo sia una sorta di curva: inizialmente c’è l’adorazione pura della natura, che poi studi, e vedi in maniera molto scientifica, per poi ritornare ad apprezzare di nuovo questa prospettiva esterna. Penso che renda la scienza più bella».
E di questo parlano anche Elizabeth (Liz) Birde e Michael (Mick) McCann, i due giardinieri dell’Orto. Secondo Liz c’è «valore su molti livelli diversi. Spesso devo ricordare a me stessa quanto sia fortunata a lavorare in un posto così: vivo circondata da alberi e natura ogni giorno della mia vita, spesso dimentico di essere effettivamente a Dublino. Sono in città, ma non sono realmente in città, è una sorta di oasi». E ancora: «vedo questo posto come una piccola gemma nascosta, e vedere troppo pubblico potrebbe fargli perdere quel suo “non so che”. Perché è un po’ come un piccolo mondo parallelo, che probabilmente non funzionerebbe molto bene nel mondo moderno, ma allo stesso tempo ti riporta ad un altro periodo, e penso che sia bello che ci sia ancora, perché una volta sparito, è andato e non tornerà indietro. È una contraddizione ironica, perché ovviamente devi ammodernare, e vuoi andare avanti naturalmente, ma ogni volta che un elemento se ne va, non lo riavrai indietro. Penso che questa fascinazione si veda in chiunque entri qui dentro, sembra quasi un miraggio, vedi la meraviglia sui loro volti, perché molti non si aspettano di trovarlo, magari camminano per la strada e si affacciano al cancello. Come in un sogno».
Un sogno sempre in bilico: Liz ricorda come diversi anni fa ci sia stata una sorta di “piccola crisi” «perché non c’erano abbastanza studenti e la botanica veniva vista come una scienza vecchio stampo. Penso che la situazione sia diversa oggi, ed il numero degli studenti sia aumentato nuovamente. Certo, c’è sempre bisogno di una costante apporto di energia e di fondi. Poi ci sono le opportunità di sviluppo, come le idee di espandere e modernizzare le infrastrutture». Per lei, «il pericolo è che qualcuno possa guardare questo posto e vederlo come un accessorio vivente. Non penso che succederà, preferisco rimanere ottimista. Penso che l’Orto sia una risorsa incredibile e non rimpiazzabile per il Trinity College, e per le generazioni future».
Mick invece parlando della sua storia, affronta un ulteriore tema: quello della dimensione umana. E con cognizione di causa. «Ho iniziato per caso: ho mandato domande per quattro o cinque lavori al College, perché mio padre lavorava lì. Oggi sarei potuto essere un assistente di laboratorio o qualcosa del genere. Non avevo alcuna esperienza di orticoltura prima di iniziare qui: ho abbandonato la scuola quando avevo quindici anni, niente qualifiche. Ho lavorato in fabbrica, in un sito di costruzioni, nei campi. Ho lavorato anche in una fabbrica di plastica, una cosa orribile. Alla fine, a ventun’anni ho avuto questo lavoro e non mi sono più guardato alle spalle. Uso questo posto anche per scrivere poesie, per lo spazio e la tranquillità, e a volte le registro, con dei suoni di sottofondo, i canti degli uccelli, cose così. Ho iniziato di recente in realtà, cinque o sei anni fa, e questo posto mi ha ispirato a farlo. Immagino che non possa sfuggire quando sei circondato da questa bellezza, a meno che tu non sia un robot. Ma forse anche un robot proverebbe dei sentimenti qui. Questo posto è come un’estensione della mia vita per me. Più che un lavoro. Quando mi trovo qui è come se non stessi lavorando, posso stare qui senza preoccuparmi di cose come riunioni, esami o il futuro. E non avevo neanche intenzione di rimanere così a lungo: ho provato ad andarmene dopo dieci anni, ma non ci sono riuscito. È un posto troppo bello, non potevo cercare una situazione migliore. Ed il posto è anche cambiato nel tempo e noi abbiamo imparato molto, ma senza pressioni, semplicemente in maniera organica, assorbendo le informazioni di cui avevamo bisogno. Oggi molto di ciò che faccio qui viene consigliato alle persone per migliorare la propria salute mentale e benessere, a me viene semplicemente dato come parte del mio lavoro».
E pensando al futuro, ed alle sfide che un posto del genere deve affrontare, semplicemente riflette.
«Penso che questo posto sia destinato a stare qui. È stato quasi chiuso, e sono sempre riusciti ad evitare che accadesse. È un oasi nella città, non biasimo chi prova ad entrare, io stesso vorrei semplicemente sedere qui, e non vorrei essere in nessun altro posto. Senza contare la storia; questo orto porta 300 anni di storia con sé, qualcosa dovrà pur significare.»
Come sa ogni buon giardiniere, non esiste una singola maniera per interagire con un giardino. E questo si riflette sui chiunque cerchi di comprendere queste istituzioni. Teorie, ricerche e pratiche esistenti identificano uno spettro ampio di interazione tra esseri umani e piante, che include diversi gradi di immersione sensoriale o ricerca fisica. E non ne esiste una che sia più efficace delle altre, dove diversi tipi di interazione possono essere più adatti a diverse situazioni o gruppi di persone. (3)
È interessante notare come attraverso le parole, i pensieri e opinioni di poche persone si trovi un quadro già così completo, ma che allo stesso tempo viene confermato dalla letteratura scientifica, come per una perenne rincorsa. E l’interazione ravvicinata con le piante può avere anche esiti inattesi: nel 2019, DelSesto e colleghi sostengono che questa possa essere un mezzo incredibile per avvicinare le persone ai ritmi della natura. Quando si pianta un seme, si nutrono e trapiantano i germogli in spazi più adeguati che soddisfino le esigenze sia di piante che di persone, e si sostiene la loro crescita, annaffiando e curandole quotidianamente, e, infine, ci si nutre di esse, dopo un’attenta preparazione del cibo. E queste esperienze possono portare a nuovi modi di pensare a condizioni personali, ecologiche e persino sociali. Così la semplice scoperta delle piante può diventare anche altro: la trasformazione di sé o l’attualizzazione della propria comunità. (3)
Bibliografia
1. BGCI. Botanic Gardens and Plant Conservation. https://www.bgci.org/about/botanic-gardens-and-plant-conservation. Ultimo accesso 8 Gennaio 2023
2. Primack, R.B., & Miller‐Rushing, A.J. (2009). The role of botanical gardens in climate change research. The New phytologist, 182 2, 303-13. https://doi.org/10.1111/j.1469-8137.2009.02800.x
3. DelSesto, M. People–plant interactions and the ecological self. Plants, People, Planet. 2020; 2: 201– 211. https://doi.org/10.1002/ppp3.10087
Grafiche: Midori Yajima